Arte negata: la cultura in Italia non è ancora per tutti

Nonostante le numerose leggi e dichiarazioni, troppe barriere – architettoniche e culturali – escludono ancora le persone con disabilità dai luoghi dell’arte. Ma esempi virtuosi mostrano che un cambiamento è possibile, se c’è volontà.

di Sara Domenici

In Italia, il Paese con il più alto numero di siti patrimonio dell’UNESCO al mondo, la bellezza è ovunque. Ma non per tutti.

Monumenti, musei, teatri, chiese, siti archeologici: spazi di identità collettiva che, troppo spesso, si trasformano in luoghi inaccessibili per chi ha esigenze specifiche.

Una questione di diritto, non di favore

L’accessibilità culturale è sancita da normative nazionali e internazionali: dalla Legge 104/1992 alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, fino al Codice dei beni culturali.

Ma tra le parole e la pratica, il divario resta profondo.

Secondo un rapporto del Ministero della Cultura, solo il 49% dei musei statali risulta “completamente accessibile” a chi ha una ridotta mobilità. Le percentuali calano ulteriormente se si considerano le necessità sensoriali o cognitive: percorsi tattili, audio-descrizioni, guide in LIS, linguaggio semplificato — strumenti fondamentali, ma ancora troppo rari.

Barriere non solo architettoniche

Non bastano gli interventi strutturali per garantire piena accessibilità. Le barriere più difficili da superare sono quelle invisibili: comunicative, sensoriali, cognitive.

Senza supporti adeguati come guide in Lingua dei Segni (LIS) o percorsi tattili, le persone con limitazioni sensoriali non possono vivere appieno l’esperienza culturale.

C’è poi un’altra barriera, spesso la più dura da abbattere: quella culturale. La disabilità viene ancora percepita come un’eccezione. L’accessibilità è trattata come un costo, non come un investimento, e raramente coinvolge chi vive queste realtà in prima persona.

Eppure, qualcosa si muove

Nonostante i ritardi, in Italia si stanno sviluppando iniziative che dimostrano come garantire l’accesso ai beni culturali possa andare di pari passo con la loro valorizzazione.

Alcuni musei hanno saputo coniugare innovazione, inclusione e rispetto dei luoghi, trasformando l’apertura alla disabilità in un valore aggiunto.

Anche il digitale sta aiutando: tour virtuali con audio-descrizioni, sottotitoli e interfacce semplificate stanno ampliando le possibilità di fruizione. E poi ci sono esempi concreti e potenti.

Ravenna, con i suoi celebri mosaici paleocristiani, ha introdotto percorsi tattili, pannelli in braille e descrizioni audio per restituire la bellezza del Mausoleo di Galla Placidia anche a chi non può vederlo. Un gesto che è anche una dichiarazione politica: la cultura è per tutti.

In funzione del Giubileo 2025, anche Roma ha investito in iniziative per rendere fruibili a tutti alcuni dei suoi tesori: basiliche storiche adattate, percorsi liturgici pensati per ogni esigenza e servizi multisensoriali. Un’opportunità per trasformare l’accoglienza in una pratica consolidata, non in un’eccezione.

Il Museo Acerbo delle Ceramiche di Castelli, in Abruzzo, ha superato i vincoli di un edificio storico con soluzioni intelligenti: ascensori discreti, pannelli in braille, visite inclusive. Qui, l’inclusività non toglie nulla, ma aggiunge significato.

Infine, l’accessibilità entra anche nell’arte più simbolica. La mostra dedicata a Marc Chagall ha reso disponibile la celebre “Crocifissione Bianca con supporti LIS, descrizioni audio e strumenti per la comprensione cognitiva. Un modello di come si possa aprire anche l’arte più complessa a un pubblico più ampio.

Questi sono solo alcuni dei numerosi progetti che, in tutta Italia, stanno lavorando per costruire una cultura partecipata e condivisa e da cui tutti i siti artistici e architettonici dovrebbero prendere esempio.

Non basta una rampa: serve una nuova visione

Non si tratta solo di abbattere barriere fisiche, ma di superare una certa idea di cultura.

Una cultura intesa ancora troppo spesso come patrimonio da custodire, più che come esperienza da condividere. Finché l’inclusione continuerà a essere percepita come un “aggiustamento” da eseguire quando possibile, rimarremo lontani da una vera trasformazione.

L’accessibilità deve essere parte integrante del progetto culturale, non un correttivo a posteriori.

Non può dipendere dalla sensibilità del singolo direttore di museo, dall’ente locale più attento o dal finanziamento europeo arrivato per caso. Deve diventare una prassi sistemica, supportata da risorse strutturali, competenze trasversali e, soprattutto, una nuova mentalità.

La disabilità non è un’eccezione. È una delle possibili condizioni della vita umana. E in una società che invecchia, che si frammenta, che cerca nuove forme di coesione, costruire luoghi culturali “for all” non riguarda solo “gli altri”: riguarda tutti noi, ora o in futuro.

Rendere accessibile un museo, un teatro o una basilica non significa solo permettere a qualcuno di entrare, ma riconoscere la dignità dell’esperienza. Significa affermare che ogni persona ha diritto non solo alla fruizione, ma anche all’emozione e allo stupore.

E poi c’è una dimensione ancora più profonda: quella simbolica: l’apertura a tutti dimostra che è possibile la creazione di una società basata sull’equità e sulla pluralità.

È una sfida politica e civile. E anche una grande occasione: quella di arricchire la cultura stessa, aprendola a nuovi modi di percepire e raccontare il mondo.

In un Paese che fa della cultura il proprio biglietto da visita, non possiamo più permetterci di escludere.

Ogni voce lasciata fuori è una parte della nostra storia collettiva che resta inascoltata. E una cultura che non include è una cultura incompleta.

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